MARIO FREGONI – IL FUTURO DELLA VITICOLTURA

24 Maggio 2022

INTERVISTA A MARIO FREGONI

PRESIDENTE ONORARIO E MEMBRO DEL CONSIGLIO SCIENTIFICO DELL' OIV

Sono tutto fuorché una scienziata

Eppure – oltre che essere una madre, un’appassionata di vino, un’esploratrice del gusto – sono innanzitutto una cittadina che sente il dovere morale di farsi delle domande, in un periodo che si prospetta fondamentale per il futuro della viticoltura italiana.

Nel nostro settore l’evidenza dei cambiamenti climatici, della desertificazione e del disastro ambientale in corso è più che mai sentita e ci riguarda tutti in prima persona, come produttori, consumatori ed esseri umani.

La propensione a ridurre l’impatto ecologico dell’intero settore è questione di assoluta priorità.

A che punto siamo con la ricerca?

Cosa si è scoperto di nuovo, chi detiene i brevetti di tali scoperte?

Che ruolo hanno in questo processo gli stessi viticoltori?

Il progresso tecnologico si muove in un contesto pubblico, laico, condiviso?

Queste sono alcune delle questioni che mi albergano in testa, in un flusso che necessita di esser disciplinato.

A tal fine ho deciso di rivolgermi ad una serie di esperti del settore.

Il confronto prende piede da una vicenda di estrema attualità:

la questione dei vitigni resistenti – i cosiddetti PIWI – intesi come concreta risposta all’emergenza ambientale.

C’è chi li promuove a spada tratta, chi nutre importanti riserve.

Cerchiamo di far luce sulla questione.

Cominciamo con la prima intervista, realizzata a marzo 2022 con il Prof. MARIO FREGONI – Presidente onorario e membro del Consiglio Scientifico dell’OIV.

 

 

PR

Professore, vorrei cortesemente tracciare con lei un’analisi dello stato dell’arte della ricerca

italiana correlata ai cambiamenti climatici e alle profonde variazioni ambientali in atto.  Mi piacerebbe che la nostra chiacchierata prendesse corpo a partire dall’analisi di un fatto specifico.

L’Unione Europea ha aperto ufficialmente la strada all’introduzione dei VITIGNI RESISTENTI nei disciplinari di produzione continentali, grazie alla modifica del Regolamento comunitario 2021/2117, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea il 6 dicembre 2021, che dovrà essere recepita a cascata da Regioni e Consorzi.

Ovviamente il processo non sarà automatico: i nuovi vitigni dovranno preventivamente essere iscritti nel Registro nazionale, seguirà un’autorizzazione regionale e la successiva integrazione del disciplinare di produzione.

Stiamo parlando di IBRIDI INTERSPECIFICI tra Vitis Vinifera europea e viti americane o asiatiche: i cosiddetti PIWI, acronimo di PILZWIDERSTANDFAHIG – impronunciabile nome di origine tedesca, che evidenzia, peraltro, la centralità del paese in tale ricerca.

Secondo figure di spicco italiane si tratta di una vera e propria “rivoluzione ampelografica” che – cito testualmente:

deve abbattere ogni ostacolo culturale ed antropologico per potersi manifestare quanto prima

Pensa sia davvero così Professore?

Lei crede sia la strada e l’investimento più opportuno da intraprendere?

Ci aiuti a capire che caratteristiche hanno questi ibridi: sono in grado di garantire la medesima qualità dei vitigni europei di riferimento? La loro resistenza è dimostrabile? Garantita nel tempo?

 

MF

Questione complessa

Io partirei dalla storia… di che cosa stiamo parlando? Stiamo parlando di una specie ben precisa: la Vitis vinifera, presente sulla Terra da milioni di anni; si è salvata dalle glaciazioni ed ha visto l’avvio della sua coltivazione nel Caucaso, nella parte che va dal Mar Nero al Mar Caspio, in particolar modo in Georgia. Dal Caucaso, circa 6 mila anni prima di Cristo, questa specie si è diffusa tra il Tigri e l’Eufrate, in Mesopotamia.

La coltivazione è cominciata con la selezione nei boschi delle migliori piante selvatiche, è partita – quindi – da un seme. Poi, piano piano, la vite è arrivata sino a noi. Se facciamo i conti stiamo parlando di quasi 8000 anni di coltivazione della vite FRANCA DI PIEDE, senza portainnesto americano. Prima dell’avvento della fillossera, verso la fine dell’ottocento, non si sapeva minimamente dell’esistenza della vite americana, rilevata in seguito alla scoperta di quelle terre, dopo il 1492, ma attenzionata veramente solo dopo l’avvento della malattia che attacca le radici della pianta. Inizialmente non si sapeva come combattere la fillossera. Si è andati avanti per tentativi ed esperimenti. Per contrastarla si è inizialmente ricorso alla chimica, trattando l’area vicino alle radici con solfuro di carbonio, o fisicamente tramite la sommersione, dato che la fillossera non resiste all’asfissia. Quest’ultima pratica è ancora in uso in Camargue. Nello stesso periodo, per contrastare la peronospora, si utilizzano prodotti a base di calcio che condurranno – successivamente – alla “poltiglia bordolese”, una mescolanza curativa di calce e di rame; ultimamente si sono sperimentati antiperonosporici a base di proteine o di estratti di bucce di arance. Queste recenti ricerche, però, non hanno molto interessato le aziende che vendono prodotti antiparassitari.

Verso il 1815 si è parlato per la prima volta di unire i caratteri della Vitis vinifera – pianta incomparabile per le sue caratteristiche qualitative, ma molto sensibile ai parassiti – a specie americane resistenti alle malattie – una trentina, circa – e a specie asiatiche resistenti principalmente al freddo e alla siccità. Queste specie sono resistenti, ma non hanno qualità. Durante le due guerre mondiali, causa carenza di rame e di zolfo, molti paesi hanno iniziato a coltivare i suddetti ibridi. In Francia, per esempio: nel Midi erano arrivati a piantare 402.000 ettari di viti ibride (l’attuale vigneto italiano è di circa 700.000 ettari – NdA). Dovevano importare, prima dal nord Africa, poi dal Sud Italia, vini da taglio da immettere ai loro vini ottenuti esclusivamente da impianti ibridi. Questi ibridi, in sostanza, hanno sempre dato problemi dal punto di vista qualitativo.

Ciononostante, in alcuni paesi freddi e piovosi, dove la peronospora in particolare attacca parecchio, per esempio la Russia, si è insistito con l’ibridazione. Seguono la Germania, Ungheria, alcuni paesi freddi e piovosi del Nord America, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, più recentemente.

Che cosa succede?

Se io introduco 1000 geni di una specie americana nel genoma della Vitis Vinifera essi vanno definitivamente a rimpiazzare 1000 geni di quest’ultima. Questo significa che nella nuova pianta si potenzia la resistenza, ma i 1000 geni della Vitis vinifera scompaiono unitamente alle loro importanti caratteristiche qualitative.

La Vitis Vinifera ha circa 26.000 geni fissi: il suo genoma non è elastico, come nell’essere umano, presenta un numero fisso di cromosomi: 38 (tranne che in due o tre specie americane che nehanno 40).

Ne deriva che l’ibridazione è un meccanismo atto a sostituire i geni delle caratteristiche qualitative con quelli della resistenza.

Che cosa abbiamo scoperto, però, con il tempo?

Primo: che questi ibridi sono molto ricchi di ANTOCIANI DIGLUCOSIDI (malvidina 3,5-diglucoside). Queste molecole sono tossiche per il nostro organismo; l’UE ne ammette una tolleranza di 15 mg/l: oltre tale quantità è vietata la vendita. L’accumulo di malvidina 3,5-diglucoside varia da ibrido a ibrido e la concentrazione aumenta nelle estati più calde, che favoriscono una maggior produzione di sostanze coloranti.

Facendo analisi sui “nuovi ibridi” si sono riscontrati livelli superiori, soprattutto nel Regent tedesco, anche se in molti sostengono che non sia vero.

Io continuo a dire che l’UE razzola bene, ma in pratica non mette in atto le regole: perché tali vitigni non dovrebbero essere idonei né all’iscrizione, né alla coltivazione.

Questi antociani diglucosidi – non presenti nella Vitis vinifera – oltre ad avere una discreta tossicità, hanno anche un’evidente instabilità cromatica.

C’è un altro composto pericoloso: le viti americane ed asiatiche hanno delle cellule caratterizzate da una membrana incrostata di pectati di calcio e di magnesio che vengono idrolizzati e danno vita ad acidi pectici che, durante la fermentazione, produco ALCOL METILICO, detto anche metanolo.

Il metanolo agisce sul nervo ottico di chi lo assume: l’abuso determina cecità. La sua tossicità può condurre anche la morte. Storicamente ne sappiamo qualcosa, ahimè.

Gli ibridi rossi sviluppano un contenuto di metanolo elevato, meno quello dei bianchi, che hanno una membrana più povera di pectati.

Sommando gli antociani diglucosidi con il metanolo possiamo affermare che gli ibridi rossi sono particolarmente pericolosi dal punto di vista della salute.

C’è un altro fatto: questi ibridi conservano il sapore “foxy” (o volpino) tipico delle uve americane: un sapore selvatico determinato dalla molecola dell’antralinato di metile. Si tratta di un odore facilmente distinguibile.

C’è un altro gruppo di composti tipici della vite americana, che si trasferisce facilmente agli ibridi: sono i COMPOSTI SOLFORATI – tipo tioli – che danno, nel migliore dei casi odori gradevoli, stile Sauvignon blanc, ma possono anche virare verso l’odore caratteristico dello zolfo, dell’anidride solforosa e – in particolari condizioni – anche delle uova marce.

Gli ibridi hanno generalmente un BASSO TASSO ZUCCHERINO, con conseguente basso livello alcolometrico, ACIDITA’ ELEVATA, TANNINI ASPRI, PH MOLTO BASSI…praticamente lecaratteristiche delle uve preposte a spumantizzazione!

Questo insieme di caratteristiche non vengono divulgate, per cui il viticoltore che sceglie gli ibridi per resistere alle malattie, spesso non ne è a conoscenza.

In sostanza l’ibridazione – in duecento anni di sperimentazione – non ha prodotto nemmeno un vino di grande notorietà in tutto il mondo.

Per capire sempre meglio la questione facciamo una doverosa e fondamentale distinzione tra IBRIDI INTERSPECIFICI, cioè tra specie diverse e INCROCI INTRASPECIFICI tra varietà appartenenti alla Vitis vinifera.

Quando parliamo di PIWI, ovviamente ci riferiamo al mondo dell’ibridazione interspecifica.

Parliamo, invece, di incroci…

Io – per esempio – ho incrociato Barbera x Bonarda per realizzare il Gutturnio con una sola varietà. Sul mio libro di “Viticoltura di qualità” (Viticoltura di qualità. Trattato dell’eccellenza da terroir – edizione Tecniche nuove – NdA) è possibile leggere una lunghissima lista di incroci sviluppati in molti paesi europei.

In Germania, per esempio, dove la tradizione culturale è fortemente legata all’ibridazione interspecifica, le piante più richieste dai viticoltori sono essenzialmente incroci. Ne è un esempio il Dornfelder (l’Helfensteiner x Herlodrebe – NdA) che è uno dei vitigni a bacca nera più piantati in tutta la nazione.

Spesso il viticoltore fa molta confusione tra ibridi ed incroci; spesso incontra nomi classici di vitigni seguiti da nuovi aggettivi.

In Francia, a tal proposito, si è scelto di aggiungere al nome delle piante ibride un asterisco che ne evidenzi l’origine interspecifica.

In questo senso sostengo che la prima responsabilità comunicativa sia del Ministero, la seconda delle Regioni – che curano gli Elenchi, poi dei Consorzi che devono – a mio parere – proteggere in primis il patrimonio autoctono.

 

PR

Ritorniamo, quindi, alla domanda di esordio. L’inserimento dei resistenti nei disciplinari di produzione potrebbe minare il principio costituente della “territorialità”?

Crede esista la minaccia di un nuovo meccanismo che ridurrà la variabilità del vitigno, dell’annata, dell’interpretazione?

Il patrimonio di variabilità genetica e clonale, a suo avviso, è a rischio?

 

MF

Non riesco davvero a comprendere come le Istituzioni abbiano potuto ammettere l’inserimento degli ibridi nei disciplinari di produzione delle nostre Denominazioni: era già una forzatura nei Vini da Tavola!

Se avessimo investito di più sugli incroci intraspecifici, anziché perseguire strade dalla minima probabilità di successo qualitativo, avremmo ottenuto molto, ma molto di più…

Se ogni Regione avviasse un programma territoriale di ricerca focalizzato sugli incroci potremmo ottenere risultati molto più incoraggianti di quelli relativi all’inserimento dei Piwi.

Non dimentichiamo che gli ibridi – che si dicono resistenti alle malattie – sono PARZIALMENTE RESISTENTI, perché contro peronospora ed oidio esigono comunque un minimo di 2 o 3 trattamenti annui e sono comunque sensibili alla fillossera gallecola che compie attacchi epigei e che sta recentemente dilagando, forse proprio in relazione alla diffusione stessa degli ibridi.

Per contrastarla occorre predisporre trattamenti, cimature, sfogliature, etc

Alla fine, la differenza di trattamenti riservati ad un ibrido e quelli dedicati alla Vitis vinifera è davvero minima.

Quindi chi sostiene che con questi ibridi si riduca drasticamente il numero dei trattamenti ed il conseguente inquinamento ambientale, sostiene una pura teoria non supportata dalla pratica.

Vorrei aggiungere un ulteriore aspetto: l’Italia è il paese che ha il maggior numero di varietà naturali, selvatiche: si parla di ben 3000, di cui solamente 600 iscritte al Registro nazionale e quindi coltivabili.

Guardando le statistiche – poi – si vedrà che 30 varietà sono quelle più piantate attualmente: 30 su 3000!

Abbiamo dunque la possibilità di lavorare su questo immenso patrimonio territoriale, evitando di andare incontro al modello del monovitigno, del monoclone, del monovigneto dove per ettari ed ettari c’è una sola varietà facilmente intaccabile nel suo livello di resistenza.

Possiamo lavorare sull’incrocio di viti selvatiche da seme, dotate di grande resistenza e corredate da sostanze antiossidanti, con Vitis vinifera.

Possiamo studiare ed incrociare la moltitudine di varietà minori non registrate ufficialmente.

Ci sono tante strade percorribili senza intaccare la qualità che ci contraddistingue, senza intaccare i preziosi genomi della Vitis vinifera. Quando vado ad ibridare una Vitis vinifera con una vite americana o asiatica, non ritorno più indietro! Quel genoma rimane quello che è diventato: posso migliorarlo, posso perfezionarlo, ma non posso più tornare indietro.

Attenzione, quindi: non roviniamo il patrimonio genetico di cui disponiamo.

Se non coltiviamo più una varietà conserviamola nelle collezioni ampelografiche ufficiali, evitandone l’estinzione.

…Andiamoci piano…

Chi ha deciso di inserire questi ibridi cosiddetti resistenti – o meglio tolleranti – nelle DOC e nelle DOCG ha risultati qualitativi, di resistenza alla longevità da dimostrare? O c’è serietà e rigore, oppure questo inserimento repentino – senza prove e senza Consiglio scientifico nazionale – non è sicuro.

 

PR

Facciamo un focus sul PIEDE FRANCO al quale abbiamo accennato “all’inizio della storia”

 

MF

Come già detto, per 8000 anni la vita viene coltivata senza innesto.

Quando è arrivata la fillossera, prima in Francia, poi in Italia e successivamente negli altri paesi, due missioni francesi sono andate negli Stati Uniti ritornando con la proposta di innestare la nostra vite sul portainnesto americano.

Io sono del parere che avrebbero potuto insistere con le ricerche partite dal solfuro di carbonio, sostenendo anche approcci non esclusivamente chimici come l’introduzione degli insetti antagonisti. Oggi non saremmo in questa condizione.

Perché sostengo che il piede franco sia una meravigliosa risorsa?

La Vitis vinifera – come già detto – non è resistente a malattie e parassiti, ma è altresì resistente alla siccità ed al caldo; presenta naturalmente un bassissimo consumo di traspirazione idrica.

Tali caratteristiche si riducono notevolmente inserendo il portainnesto.

Il piede franco va dunque preservato laddove è possibile che cresca: in zone di origine vulcanica, in suoli sabbiosi e silicei, a pH basso, in aree nordiche fredde.

Pensiamo al Cile: 200.000 ha di viti franche di piede!

Io ho lavorato molto in questo Paese e ho suggerito di chiedere il riconoscimento di Patrimonio Culturale dell’Umanità dell’UNESCO, soprattutto in relazione ai tanti ceppi ultrasecolari.

Noi, invece, abbiamo vigneti innestati che durano in media dai 15 ai 25 anni, se va bene, e costi di rinnovo vigneto importanti, da correlare anche alla non produttività dei primi anni di impianto. Personalmente il vino ottenuto da viti franche di piede lo riconosco immediatamente all’assaggio: finezza e struttura sono le sue meravigliose caratteristiche. Certe delizie si ottengono più difficilmente con viti innestate.

Inoltre – io sono stato il primo ad evidenziarlo – abbiamo il fenomeno del “rigetto” determinato dalla scarsa affinità di alcuni portainnesti con le varietà innestate.

Intorno ai 10 anni di vita le piante possono cominciare a morire. Il viticoltore può attribuire la colpa ad altre cause, ma in realtà sono queste disaffinità di tipo metabolico a determinarne la morte. In campo umano abbiamo strumenti avanzati per stabilire con precisione le compatibilità imprescindibili per un trapianto, in viticoltura non ancora ed i possibili rigetti sono all’ordine del giorno. E’ assolutamente frequente vedere calli di innesto molto estesi, sintomo parziale di disaffinità, che causano seri problemi alla circolazione della linfa.

In sostanza il mio messaggio è: salviamo la vite franca di piede dove già esiste e, dove possibile, coltiviamola con dedizione.

Posso raccontare di un mio progetto in Toscana inerente al Sangiovese franco di piede: 10 prove di confronto finalizzate a capire se si possa “correggere” il suolo per aumentarne la resistenza naturale. Utilizzeremo composti che vengono assorbiti dalle foglie e di conseguenza trasferiti alle radici al fine di valutare una possibile resistenza indotta. Porteremo zolfo, sabbia, acido ialuronico, acido salicilico ed altri composti per influenzare le caratteristiche del suolo.

 

PR

Abbiamo capito che ottenere vini dal gusto sovrapponibile a quello originale è alquanto improbabile con l’attuale tecnica dell’ibridazione interspecifica.

A che punto siamo, invece, con la GENETICA INNOVATIVA?

 

MF

Io sono contro l’ibridazione, ma non contro gli altri metodi genetici. Nella viticoltura le mutazioni gemmarie naturali possono dare nuove varietà.

Il Pinot nero, per esempio, ha generato per mutazione naturale il Pinot grigio, il Pinot bianco, etc.

Io ho personalmente selezionato, a Piacenza, una mutazione “rosa” di una Malvasia bianca di Candia.

Si tratta di mutazioni naturali che non creano problemi perché rimangono sempre nel contesto della Vitis vinifera, nel patrimonio dei suoi 25.000/26.000 geni.

Ci sono metodi più recenti, sviluppati all’incirca da 10 anni, che prevedono il trasferimento dei geni tramite Agrobacterium tumefaciens: un batterio gram negativo, di forma bastoncellare, capace di infettare le piante attraverso la trasmissione di un segmento di DNA, che penetra all’interno delle cellule vegetali integrandosi nel loro genoma

Si tratta di metodi di trasferimento a vettore (e tale vettore potrebbe anche essere artificiale) che l’UE ha classificato come “transgenici”

Ci sono poi gli approcci di GENOMA EDITING –concettualmente molto interessanti – che permettono di studiare nel dettaglio il genoma al fine di individuare i geni sensibili alle malattie, con lo scopo di sostituirli con geni resistenti.

Una sorta di copia/incolla di precisione che non intacca il resto del genoma.

 

PR

Se ho capito bene – dunque – quando parliamo di genoma editing ci riferiamo alla riscrittura di una piccola porzione di genoma che conduce all’ottenimento di un “clone” con leggera variazione rispetto alla specie madre.

 

MF

Esatto.

Siamo pratici, però: sono passati più di 10 anni ed io non ho visto una varietà di vite proveniente da questi metodi moderni. Anche avendola vista, poi, è necessario valutarla, con particolare riferimento alle sue caratteristiche qualitative.

Vengono spesi miliardi su queste ricerche: se noi avessimo fatto il medesimo investimento su altre tecnologie (incrocio intraspecifico, ricerca di mutazioni varie, etc.) oggi avremmo altri risultati.

 

PR

Perché di questi argomenti non si è pubblicamente e preventivamente discusso? Perché si inneggia ad una vera e propria “rivoluzione ampelografica” in relazione alla diffusione degli ibridi?

 

MF

In Francia c’è un Consiglio scientifico che fa le prove delle nuove varietà: siano esse ibridi o incroci. Sono necessari 10 anni di test perché si possa condividere una valutazione. Un decennio produttivo per stabilire se una varietà merita o non merita.

Nulla di simile in Italia.

Le nuove varietà vengono proposte a carico del viticoltore che le paga a prezzi più elevati.

Nella Champagne, dove il monovitigno espone ancora di più alle malattie, si stanno piantando migliaia di piante ornamentali, filari in riva ai vigneti, per aumentare la variabilità e quindi, automaticamente la resistenza. Piante diverse sostengono la presenza di insetti antagonisti, di uccelli.

Anche io ho proposto di fare queste cose: il viticoltore che guadagna molto diventa egoista, però: metterebbe viti anche sul tetto…altro che piante ornamentali!

In molte aree rurali sono spariti addirittura gli orti, i fiori.

Io promuovo l’utilizzo di leguminose particolari che sintetizzano sostanze tossiche per gli insetti portatori di malattie.

Questa è una linea interessante da seguire.

 

PR

Arriviamo dove siamo partiti, dunque. La centralità della ricerca, una ricerca di patrimonio pubblico e la relativa condivisione delle direzioni da intraprendere…

 

MF

La direzione non può e non deve essere una soltanto!

Ogni passo va fatto con attenzione e con rigore

Abbiamo di fronte un patrimonio millenario da preservare.